Forse non esiste tema più polarizzante sui social media che il conflitto tra Israele e Palestina. E su X (già Twitter) questa polarizzazione sembra aver già conquistato ogni dibattito. La guerra scatenata dall’attacco di Hamas di sabato scorso è considerata da molti il primo vero test per la piattaforma comprata lo scorso anno da Elon Musk. E come spesso accade ai test, qualcosa al momento pare non andare per il verso giusto.
Musk – che questa polarizzazione delle opinioni in qualche modo incarna – a meno di 48 ore dallo scoppio del conflitto è finito al centro di polemiche sul social (pagato 44 miliardi) per aver condiviso un post in cui suggeriva di seguire per un’accurata “copertura in tempo reale” dei fatti di Gaza due account: WarMonitors e Sentdefender. “Sono ottimi”, ha detto. Salvo poi rivelarsi due account vicini alle ragioni dei palestinesi, che in passato non hanno lesinato accuse di ‘ebraismo’ e ‘sionismo’ ad altri utenti del social. I due account erano quindi tutt’altro che affidabili. Per niente ‘ottime’ fonti di informazione. Musk, accortosi dell’errore, ha poco dopo cancellato il suo post.
Un inciampo. Più facile da commettere sui social quando si pretende di diventare fonte accurata di informazioni. Musk ha già consacrato la sua piattaforma come la casa del giornalismo partecipativo. Quello dal basso. Fatto dalla gente per la gente. L’antidoto ai media tradizionali, che Musk ritiene a sé ostili e che non si trattiene dal vergare più o meno con dosaggio quotidiano.
L’errore di Musk in qualche modo testimonia che X al momento è piuttosto lontana dal potersi accreditare come fonte di informazioni accreditate – a patto che non siano istituzioni o testate autorevoli a diffonderle. Un esempio. In queste ore un account verificato ha diffuso la notizia della morte dell’economista indiano Amartya Sen. La notizia non è vera e sono dovuti intervenire i colleghi e gli allievi di Sen per cercare di arginare la sua diffusione.
Difficile trovare fonti autorevoli. Le spunte blu certificano solo che ora il social si paga
Twitter era la piattaforma nota soprattutto per gli account verificati. Fonti di informazione primaria, di giornalisti riconosciuti o istituzioni. Ora la spunta blu si compra per 8 euro. E durante la nuova guerra tra Israele e Hamas queste informazioni diffuse da spunte blu stanno solo creando confusione. L’effetto, sostengono diverse analisti sui media internazionali, è che sui social si sta diffondendo un’enorme quantità di informazioni non verificate.
Immagini false di bombardamenti, violenze, decapitazioni prese da altri conflitti o conflitti passati, sempre cruenti, sempre terribili, ma che non riguardano ciò che sta accadendo in questi giorni a Gaza. X e TikTok sembrano i megafoni dove queste false informazioni riescono a propagarsi. Le analisi sembrano suggerire più che altrove, più che in passato. Difficile dirlo. Così come è difficile individuare una sola matrice.
“È scoppiata anche una guerra culturale. E si combatte sui social”
“In queste ore è scoppiata anche una guerra culturale. Ci sono molti account falsi e bot che diffondono propaganda e false informazioni. Ma ci sono soprattutto persone reali che stanno condividendo questi video e queste foto. E per quanto riguarda la guerra in Israele, sappiamo che sono persone vicine ad Hamas. È lo stesso che è successo con Al Qaeda dieci anni fa”, commenta al nostro giornale Juan Clades dell’European Jewish Association. Che in atto ci sia una guerra anche culturale sembrerebbero confermarlo anche i dati di alcuni studi pubblicati in queste ore.
Cyabra è una società di analisi israeliana. Anche in questo caso quindi si tratta di un punto di vista di parte, ma è l’unica analisi sui social disponibile al momento. Ieri la società ha diffuso dei dati secondo i quali un account di social media su cinque che partecipa alle conversazioni online sugli attacchi di Hamas e sulle loro conseguenze è falso. Cyabra ha scoperto che circa 30.000 account falsi hanno diffuso disinformazione a favore di Hamas o raccolto dettagli sensibili sui loro obiettivi. La società ha dichiarato che i falsi account – molti dei quali bot automatizzati non gestiti da mano umana – erano particolarmente attivi su X e TikTok, ma comparivano anche su altre piattaforme. “C’è una guerra in atto anche sui social media. E non la sta combattendo solo la propaganda, ma anche quelle associazioni, quei politici che sostengono apertamente le ragioni di Hamas e giustificano le loro azioni”, aggiunge Caldes.
Musk e X corrono ai ripari. Media Usa rivelano: non ha più gli strumenti per farlo
Si diceva. Forse non c’è tema più polarizzante di questa guerra. Più del conflitto in Ucraina. Più di ogni conflitto finora raccontato sulle piattaforme. Musk – che si è accorto del proliferare di ogni tipo di propaganda – sta cercando di correre ai ripari. Ha annunciato nuove policy di controllo sulla piattaforma e invita gli utenti a usare gli strumenti per segnalare informazioni false o foto e video non verificati per evitare la diffusione di disinformazione e propaganda.
È difficile pensare che Musk non voglia arginare il fenomeno. In questi anni si è fatto molti nemici, è stato spesso divisivo. Ma è un’accusa che non regge. Così come poco regge quella di antisemitismo che ogni tanto fa capolino in qualche analisi – qualche mese fa è stato accusato di antisemitismo per aver paragonato George Soros a Magneto, un criminale ebreo della serie X-Man della Marvel; Musk insomma ci mette del suo.
Le sue intenzioni possono essere anche buone. Il problema è che potrebbe non avere più gli strumenti per farlo. Il controllo delle informazioni fatto dalla base degli utenti è molto più lento della diffusione di un post sui social. Inoltre, stando a quanto riportato oggi da The Information, proprio negli ultimi mesi l’azienda avrebbe deciso di spegnere uno strumento proprietario in grado di identificare la diffusione di un post fatto da bot. Ufficialmente, per questione di costi. Questi strumenti di analisi delle conversazioni in rete sono essenziali per arginare il fenomeno della diffusione organizzata di false informazioni. Affidarli solo agli utenti non ha la stessa efficacia. E va incontro ai pregiudizi dei singoli, la loro capacità di verificare, ricordare, decidere di volta in volta cosa è vero e cosa no.
Musk dà segnali confusi. Un po’ confuso è anche il suo social
Fenomeni che hanno causato molte polemiche online. Musk è stato messo di nuovo sotto accusa. Per non aver verificato gli account di cui diceva di fidarsi prima e per aver introdotto strumenti di controllo troppo blandi poi. Alcuni lo hanno accusato di antisemitismo. Altri di essere fin troppo filoisraeliano.
Come accade spesso, la sintesi migliore l’ha fatta un meme. Lo ha condiviso Elon Musk. Un fumetto. Su una plancia di sono due tasti con due opzioni: uno recita che X è un antisemita, l’altro che è una cassa di risonanza sionista. Chi deve scegliere cosa pigiare è un uomo, immagine dei media mainstream, considerati causa di molti mali.
Il meme nasconde una verità. Con i suoi comportamenti, con le sue azioni sui social, è davvero difficile capire cosa pensi Musk, cosa pensi Di X e in alcuni casi di se stesso. La sua comunicazione oscilla tra sensazionalismo e ironia, precisione da ingegnere e sfumature da complottista.
Prima promuove account filo Hamas, poi fa segnalare un tweet della guida suprema iraniana Ali Khamenei che ha diffuso un video dell’assalto al rave dove hanno perso la vita 260 ragazzi – contravvenendo ancora una volta alla tesi della massima libertà sulla piattaforma. Musk dimostra incertezze. È ovvio. È normale. È quasi auspicabile. X riflette queste sue incertezze mostrando difficoltà e errori. Per parafrasare un libro dedicato alla sua visione del mondo (L’uomo che voleva risolvere il futuro, 2022), un uomo solo non può risolvere nulla. Un social nemmeno.