Quando il dito indica Mira Murati (34 anni, albanese di nascita, capo della modernissima tecnologia di OpenAI e da sabato anche AD pro tempore della startup dell’anno al posto di Sam Altman); quando il dito indica Mira Murati – finalmente una donna in questo mondo solo al maschile dell’intelligenza artificiale! – il saggio guarda Ilya Sutskever, il mandante del licenziamento più clamoroso dai tempi della cacciata di Steve Jobs da Apple; il “Bruto” della Silicon Valley che ha ordito la trama che ha fatto fuori il “Cesare” di Chat GPT, ma soprattutto il suo amico e sodale: Quoque tu, Ilya!
E quindi finalmente adesso si capiscono alcuni criptici tweet di Ilya Sutskever delle settimane scorse, mentre Sam Altman calcava le scene mondiali decantando le meraviglie dell’intelligenza artificiale generativa. Tipo: “L’ego è il nemico della crescita”. A chi si riferiva? O anche il monito: “Se consideri l’intelligenza come la più importante fra tutte le qualità umane finirai male”, che per un informatico è strano a dirsi. Oppure, è sempre Ilya Sutskever a twittare, “l’empatia nei rapporti umani e negli affari è molto sottovalutata”. Ecco, sicuramente abbiamo sottovalutato la determinazione di questo giovane scienziato che pure ha un mostruoso h-index, la metrica che misura la produttività e le citazioni scientifiche: 20 è considerata buona, 40 eccezionale. Lui ha 82. Senza di lui, OpenAI sarebbe soltanto un’altra startup che non ce l’ha fatta.
Nella famosa cena dell’estate 2015, nella casa di Greg Brockman a Menlo Park, la cena in cui si decise di far nascere una no profit per far sì che l’intelligenza artificiale avesse un impatto positivo sul mondo, Ilya già c’era. Era stato Sam Altman, che ai tempi guidava Y Combinator, il più importante acceleratore di startup della Silicon Valley e quindi del mondo, a invitarlo; ma fu Elon Musk a convincerlo a lasciare Google Brain per prendere il posto di chief scientist di OpenAI: “Io ci metto un miliardo di dollari”, disse per fargli capire che era una cosa seria. Ai tempi, nell’ambiente, Ilya era già considerato un fuoriclasse. Era il miglior allievo di Geoff Hinton, il professore dell’università di Toronto che per una vita aveva predicato nel deserto l’idea che un sistema informatico modellato sul nostro cervello (le reti neurali) avrebbe imparato da solo quello di cui aveva bisogno e non avrebbe più smesso di imparare. Nessuno ci credeva ma Ilya sì. Era nato in Unione Sovietica 37 o 38 anni fa, non è chiaro. Dopo il crollo del Muro, la famiglia si trasferì in Israele e di qui in Canada, a Toronto, un colpo di fortuna, perché lì c’era Hinton che era sempre in cerca di qualcuno che lo aiutasse nelle sue ricerche mentre i colleghi lo deridevano: “Uno nel mondo a occuparsi di reti neurali è anche troppo”, dicevano.
Ma sbagliavano tutti, oggi lo sappiamo: era solo questione di tempo. Con l’aumento della potenza computazionale e i nuovi processori ispirati ai videogiochi, le GPU, le reti neurali hanno fatto fare all’intelligenza artificiale quel salto che si attendeva dal 1958 quando Frank Rosenblatt presentò al mondo una macchina rivoluzionaria, “il Perceptron”, dicendo che poteva fare tutto (al giornalista che chiedeva cosa non sapesse fare, Rosenblatt rispose: “Amare. Sperare. Disperarsi. Ciò che ci rende umani”). Questo per dire che la visione per cui è nata OpenAI viene da lontano: si chiama IA Forte oppure AGI, acronimo che sta per intelligenza artificiale generale. Per dirla con Ilya, “è un sistema informatico in grado di fare tutto quello che fanno gli esseri umani, ma meglio”. Con ChatGPT abbiamo capito che la cosa non è così remota come pensavamo. Ci siamo quasi? Non è detto, sostiene Sutskever, ma le possibilità che questo traguardo sia imminente ci impongono di prendere il rischio sul serio. Ecco, nella dialettica fra apocalittici e integrati, fra quelli che pensano che stiamo andando verso la fine dell’umanità e quelli che dicono che inizia l’era di un progresso infinito, Ilya sta fra i primi (assieme al suo mentore Geoff Hinton) e Altman fra i secondi.
Per questo lo scorso luglio, mentre Sam Altman già vagheggiava una valutazione da 100 miliardi di dollari per la loro startup, Ilya si intestava il 20% delle risorse di calcolo e creava un team interno dedicato all’obiettivo che lui considera prioritario: il super allineamento. Ovvero: “Se davvero presto avremo macchine più intelligenti di noi, come facciamo a essere sicuri che i loro obiettivi siano allineati ai nostri?”. Sam Altman è invece sicuro che tutto andrà benissimo, e la sera prima del licenziamento era andato a ripeterlo a un evento a Oakland moderato (perfida la sorte) dalla vedova di Steve Jobs, Laurene Powell: “Questo decennio sarà ricordato come quello in cui è iniziata l’era dell’abbondanza” aveva detto. Mentre Ilya, che pure conosce le potenzialità di quella che lui chiama la superintelligenza, la vede diversamente. Dice che quando ci sarà si comporterà con noi come noi ci comportiamo con i nostri animali domestici: “Gli vogliamo bene, ma se vogliamo fare qualcosa non è che gli chiediamo il permesso”.
E questo è solo il primo atto di un’opera con un finale tutto da scrivere: Sam Altman non è finito, forse anzi tornerà in sella. E Ilya è uscito dal cono d’ombra. Entrambi dicono di voler salvare il mondo, ma solo uno dei due ha ragione.