Calma piatta. Che la spesa dei fondi strutturali europei da parte delle regioni e dei ministeri italiani proceda con difficoltà è un dato storico. Ma nella programmazione 2021-2027 sta assumendo dimensioni preoccupanti, al limite del grottesco. A fine aprile, su 74 miliardi di euro disponibili la spesa effettiva era ferma ad appena 621 milioni, lo 0,9% del totale. Questo si ricava dall’ultima trasmissione trimestrale a Bruxelles dei dati delle autorità di gestione dei programmi. Nessun segnale di accelerazione rispetto ai dati di fine dicembre indicati nella nota di aggiornamento al Def, quando la spesa era pari a 535 milioni (0,7%). Senza una svolta davvero radicale, sarà impossibile utilizzare in tempo tutte queste risorse che provengono dal Fondo europeo di sviluppo regionale e dal Fondo sociale europeo +, più il cofinanziamento nazionale. Se così fosse, sccatterebbe il disimpegno automatico e i soldi andrebbero ad altri Stati membri.
Spacchettati in una cinquantina di programmi gestiti da regioni e ministeri, i fondi devono essere impegnati entro il 2027 e spesi entro il 2029, ma a questi ritmi non basterebbero un paio di decenni. Se proprio si vuole cercare un segnale di vita, si può guardare all’aumento degli impegni di spesa, passati in quattro mesi da 4,2 a 6,8 miliardi, ma siamo ancora a meno del 10% delle somme disponibili.

Il richiamo della Commissione Ue

Del tutto giustificato, dunque, il pressante richiamo della Commissione europea, contenuto nelle raccomandazioni all’Italia approvate il 19 giugno, ad «accelerare l’attuazione dei programmi della politica di coesione», un obiettivo considerato «cruciale, insieme al rafforzamento della capacità amministrativa a livello nazionale ma soprattutto negli enti locali». La Commissione ha chiesto quindi all’Italia di approfittare della revisione di medio termine per rivedere ogni programma entro marzo prossimo, tenendo conto delle «sfide» individuate nelle raccomandazioni Ue, in particolare delle disparità che persistono tra Centro-Nord e Mezzogiorno. «Oltre al rafforzamento della capacità amministrativa – scrive la Commissione – è particolarmente importante la rapida attuazione degli investimenti in ricerca, innovazione e competitività, in particolare nelle regioni meno sviluppate, in parallelo con i piani di sviluppo infrastrutturali e le strategie regionali di specializzazione intelligente». Inoltre, l’Italia «dovrebbe continuare a migliorare la qualità dei servizi pubblici essenziali nelle regioni del Sud, in particolare i servizi idrici e di trattamento dei rifiuti». Tra gli altri suggerimenti della Commissione, nel lungo paragrafo dedicato alla coesione, anche la formazione e la riqualificazione dei lavoratori, la riduzione dei giovani che non lavorano e non studiano (NEET) e il supporto alle donne in cerca di occupazione.

Cause vecchie e nuove dello stallo

La spesa dei fondi europei rispecchia le difficoltà generali del sistema-paese nel realizzare gli investimenti pubblici. Ne sono una testimonianza i piani di rafforzamento amministrativo chiesti da Bruxelles alle regioni italiane più di dieci anni fa, nel tentativo di migliorare le capacità delle pubbliche amministrazioni, dalla fase progettuale a quella realizzativa e di rendicontazione. Inoltre, l’alto livello di contenzioso, accompagnato dai tempi lunghi della giustizia civile, non ha aiutato: troppo spesso all’aggiudicazione di un bando, l’impresa arrivata seconda fa ricorso. A queste cause “storiche” e al ritardo iniziale della programmazione 2021-2027 a causa del Covid , se ne sono aggiunte di nuove. Il Pnrr ha prodotto un forte “effetto spiazzamento”: si tratta di risorse ingenti (per due terzi a debito) che finanziano più o meno le stesse cose dei fondi strutturali, ma con un meccanismo di erogazione più semplice e veloce, basato sugli obiettivi raggiunti e non sulla rendicontazione specifica delle spese. I fondi del Pnrr, inoltre, devono essere spesi entro il 2026 mentre per gli altri ci sono due anni in più. Da qui l’attenzione politica e mediatica altissima sul Pnrr e il dimenticatoio per tutto il resto, compreso il Piano complementare.

Le riforme del ministro Fitto

Ma ci sono anche altre ragioni che stanno contribuendo allo stallo. Volendo mettere ordine alle politiche di investimento pubbliche, il ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di Coesione e il PNRR, Raffaele Fitto, è intervenuto in modo profondo sulla governance della coesione, in una logica di complementarietà ma anche di accentramento. A febbraio 2023, con il decreto di modifica del Pnrr, ha delineato una riforma della coesione stabilendo la chiusura dell’Agenzia per la coesione, cosa che è poi avvenuta a dicembre. Risorse e competenze sono state trasferite al Dipartimento della presidenza del Consiglio per la coesione (Dpcoe) articolato in cinque uffici generali, di cui uno risulta ancora senza responsabile e un altro affidato solo da un paio di mesi. La riforma di Fitto (approvata per decreto ai primi di maggio di quest’anno e ancora in discussione in Parlamento per la conversione) ha imposto alle regioni gli Accordi per la coesione (mancano ancora quelli di Campania, Puglia e Sardegna) per vincolarle ad una lista condivisa di progetti e sbloccare le risorse del fondo nazionale Sviluppo e coesione. Il primo (Liguria) è stato firmato a settembre 2023; solo a fine aprile 2024 il Cipess ha approvato i 17 già firmati ma manca ancora la registrazione della Corte dei conti. Morale: le regioni non hanno ancora visto un euro, risorse in molti casi necessarie per il cofinanziamento dei fondi strutturali europei. Tra il ministro e i governatori non sono mancate le tensioni che nel caso della Campania sono arrivate al Consiglio di Stato. Inoltre, fino a poche settimane fa mancavano ancora le autorità di gestione di qualche programma nazionale.

Il tempo stringe ma gli effetti positivi attesi dalle riforme di Fitto ancora non si vedono.

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