Dal nostro corrispondente
NEW DELHI – Il conflitto vero e proprio non l’ha vinto nessuno. Ma le danze diplomatiche iniziate subito dopo la fine dei combattimenti tra India e Pakistan per il momento le sta conducendo Islamabad. Prova ne è il fatto che il governo guidato da Shehbaz Sharif ha deciso di candidare Donald Trump al Premio Nobel per la Pace per l’«intervento decisivo e la leadership determinante» durante la recente crisi tra India e Pakistan. Quello pakistano, peraltro, è un vero paso doble perché da una parte si vellica l’ego di un presidente degli Stati Uniti notoriamente sensibile all’adulazione (e che va dicendo da tempo di meritare il premio) dall’altra si irrita oltremisura il primo ministro indiano Narendra Modi.
Il motivo è semplice, perché la questione di come lo scorso maggio, dopo quattro giorni di combattimenti sempre più intensi, si sia arrivati a far tacere le armi tra India e Pakistan è a dir poco controversa. L’annuncio del cessate il fuoco l’ha dato Trump. Il Pakistan ha confermato la notizia, ringraziandolo profusamente. L’India invece si è accodata buon’ultima, senza neppure citare il presidente americano.
Scelta non casuale quella di New Delhi, la cui dottrina diplomatica in materia di rapporti con il Pakistan prevede che si tratti di una questione bilaterale e che, come tale, non debba essere negoziata con la mediazione di terze parti. L’approccio indiano poggia sia su fattori tecnici, come l’Accordo di Simla del 1972, dove si parla espressamente di «negoziati bilaterali», sia su ragioni storiche e politiche.
L’India considera la questione del Kashmir – che è da sempre al centro delle tensioni con il Pakistan – un tema di politica interna e come tale rifiuta ogni ingerenza, sia che si tratti di potenze terze (specialmente gli Stati Uniti, storici alleati di Islamabad), sia che si tratti di organizzazioni come l’Onu (che in passato ha sostenuto il diritto all’autodeterminazione dei kashmiri e accusato New Delhi di violazioni dei diritti umani nella regione).
