La tassa sugli extraprofitti delle banche, alla fine, si è rivelata un flop, come ha scritto Stefano Righi, sul Corriere: «Meglio tenere in un cassetto chiuso a chiave in casa propria cinque miliardi di euro che pagarne due in forma di tasse per poter disporre dei restanti tre miliardi legittimamente guadagnati e su cui, peraltro, già si sono pagate le imposte. Una decisione che ognuno di noi avrebbe preso e che ha accomunato il settore bancario italiano davanti alla richiesta di una tassa a valere sugli extraprofitti del settore».
L’economista Rony Hamaui (che oltre a essere professore a contratto alla Cattolica di Milano è anche presidente di Intesa Sanpaolo ForValue), su lavoce.info, è ancora più tranchant: «nel “18 di Brumaio di Luigi Bonaparte” Karl Marx ci ricorda come nella storia molti fatti e personaggi si presentino, per così dire, due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Sembra essere la sorte della tassa sugli extraprofitti delle banche».
Conviene, però, ricostruirla nel dettaglio (e magari mandarla a memoria), la storia di questo fallimento in gran parte annunciato. Partendo da un dato di fatto: gli extraprofitti, le banche italiane li hanno realizzati, eccome. Nei primi nove mesi 2023 il settore in Italia segna oltre 16 miliardi di utili netti, l’80% più di un anno prima. Il sindacato Fabi stima per l’intero 2023 utili operativi a 43,4 miliardi per i soli cinque gruppi (+70%), grazie al decollo dei margini d’interesse, quasi doppi per i 10 rialzi dei tassi Bce. Il decreto del 7 agosto, fortissimamente voluto dal vicepremier Matteo Salvini (ma rivendicato in prima persona dalla premier Giorgia Meloni nell’intervista concessa a Monica Guerzoni) era stato perciò presentato come una «misura di equità sociale», limitata solo al 2023, per togliere a chi, in periodo di inflazione e rialzo dei tassi ci aveva guadagnato e dare a chi ci aveva perso. Tutti gli introiti sarebbero andati in «aiuto per i mutui delle prime case, sottoscritti in tempi diversi rispetto agli attuali, e il taglio delle tasse». Il leader della Lega indicava poi che lo Stato avrebbe incassato «alcuni miliardi» (almeno un paio, secondo le stime).
E un effetto immediato, l’inatteso decreto l’aveva avuto, come ricorda Righi: «L’8 agosto Piazza Affari perse il 2,12 per cento, con le banche in picchiata: Intesa Sanpaolo e Unicredit persero rispettivamente l’8,67% e il 5,94%, il Banco Bpm il 9,09%, Bper il 10,9 per cento, Credem l’8,31, il Monte dei Paschi il 10,83%, FinecoBank il 9,91%, Banca Generali il 3,14% e Banca Mediolanum il 5,96%. Una Caporetto». Nove miliardi e mezzo di euro «bruciati» dal settore in una sola seduta. Come era facile attendersi, a quel punto gli istituti di credito avevano però fatto muro ed era arrivata la «mediazione» che assomigliava molto a una ritirata del governo (il «momento Liz Truss» di Giorgia Meloni, l’aveva chiamato Federico Fubini, ricordando la precipitosa retromarcia dell’ex premier britannica costretta a ritirare la sua manovra fiscale e poi a dimettersi). Anziché pagare l’estra-tassa dovuta, si poteva scegliere di mettere a riserva un importo pari a due volte e mezzo tanto. E, di fronte alla possibilità di scegliere se pagare un euro di tasse ulteriori, oppure rinunciare a 2,5 euro di utili, mettendoli a patrimonio per coprire eventuali perdite, senza distribuirli agli azionisti, nessuno ha avuto dubbi, neppure chi guida le due banche controllate dallo Stato, il Monte dei Paschi di Siena e Mcc, il Mediocredito centrale. Per il valido motivo indicato anche da Giuseppe Litutti su Startmag: «Nessun consiglio di amministrazione, a prescindere, dall’azionista, aveva voglia di essere accusato di indebolire il patrimonio della banca, gravando i conti della banca con una tassa».
Si dirà che il provvedimento è allora servito, quantomeno, a rafforzare le nostre banche (peraltro già fra le più solide d’Europa, come ha ricordato Righi). Ma non è poi così vero, come spiega Hamaui. «Prendiamo il caso di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana. In occasione della presentazione dei risultati del secondo trimestre, a fine luglio, il suo ceo Carlo Messina affermava: “I risultati solidi e positivi dei primi sei mesi dell’anno ci consentono di aumentare la previsione di un utile netto 2023 ben superiore a 7 miliardi di euro”. E aggiungeva: “Quest’anno potremo distribuire ai nostri azionisti 5,8 miliardi”. In altri termini, la banca a fine luglio prevedeva di fare accantonamenti superiori a 1,2 miliardi, importo non molto diverso da quanto imposto dalla così detta tassa sugli extraprofitti (1.477=2,5X 591 milioni). La stessa conclusione si può trarre dal caso di Unicredit. Infatti, anche il ceo di questa banca, Andrea Orcel, in occasione della presentazione dei risultati del secondo semestre nel 2023, aveva alzato i profitti attesi dell’anno a 7,25 miliardi e annunciava dividendi per 6,5 miliardi con un accantonamento di almeno 750 milioni di euro, solo leggermente inferiore a quanto previsto dalla tassa sugli extraprofitti (992=2,5X 397 milioni). Anche per le altre banche minori la dimensione degli utili dovrebbe essere tale da permettere un’ottima distribuzione dei dividendi accompagnata da accantonamenti che superano i limiti imposti dal governo».
Si poteva fare diversamente, l’operazione «Robin Hood» per togliere a chi si è arricchito e dare a chi si è impoverito? Probabilmente sì, intervenendo piuttosto sui tassi sui depositi bancari, come aveva spiegato Fubini: a luglio, in Francia, ricordava, in Francia, «il rendimento medio di tutti i depositi bancari delle famiglie era all’1,72%; qui nello stesso mese era dello 0,73%. Le famiglie in Italia hanno depositati 1.124 miliardi di euro e se potessero godere dei rendimenti mesi francesi, le banche dovrebbero versare loro 11,1 miliardi in più all’anno. Avete letto bene. Mentre ci accapigliamo per poche centinaia di milioni di qua o di là in legge di bilancio, se avessimo trattamenti più europei in banca le famiglie avrebbero più di dieci miliardi in più. E le imprese quasi cinque miliardi in più. Ogni anno. Pensate alla differenza che farebbe per i consumi, la fiducia, gli investimenti, la crescita». Fubini vedeva in quella disparità di trattamento dei risparmiatori «un indizio che in Italia le banche hanno un forte potere negoziale sui privati e sulle varie articolazioni dello Stato. E che quest’ultimo è molto meno efficace, per esempio, dello Stato britannico nel far sì che gli istituti trattino la clientela correttamente. Bisognerebbe capire perché. E qui vorrei presentare la mia ipotesi: in Italia le banche sono troppo importanti nel finanziamento del debito pubblico, perché il governo o le autorità indipendenti osino incalzarle sul modo in cui trattano i privati».
Su Repubblica, Andrea Greco ha ricostruito così il percorso che ha portato alla «sterilizzazione» della tassa sugli extraprofitti, parlando di «un lavoro svolto sottotraccia tra agosto e settembre dalla vigilanza Bce-Bankitalia, in asse con l’Abi e con il Tesoro e con la sponda politica di Forza Italia»: «L’opzione di evitare la tassa creando nuove riserve di capitale 2,5 volte maggiore fu introdotta il 23 settembre, con un emendamento del governo preparato dal Mef, dopo il quale Forza Italia ritirò i suoi. Dieci giorni prima la Bce aveva inviato al Tesoro il parere dovuto – ma ben critico – sull’imposta, con diversi argomenti. Quello principale era il timore di effetti negativi per il patrimonio bancario e l’economia, in una fase di riduzione dei crediti, dovuta ai rialzi dei tassi e congiuntura stagnante (difatti Bankitalia ha poi censito oltre 60 miliardi meno di crediti a imprese e famiglie nel Paese a settembre, -6,2% da un anno prima).
L’interlocuzione tra Tesoro, Via Nazionale ed Eurotower fu intensa quei giorni: e a garantirla fluida si racconta che fu l’entourage di Fabio Panetta, membro uscente del direttivo Bce e governatore di Bankitalia in pectore, gradito a Meloni. Un altro aspetto critico, fatto notare dalla vigilanza ed escluso dal decreto nella conversione in legge, riguardava gli interessi da titoli di Stato, di cui le banche sono prime detentrici dopo la Bce stessa (ne hanno per 400 miliardi), e che poteva disincentivare il loro sostegno a Btp e simili. Un terzo aspetto critico, di cui si sarebbe parlato solo dietro le quinte, riguardava Mps, salvata dal Tesoro nel 2017: la banca senese, in un percorso di rilancio, rischiava di pagare più caro di altre il nuovo obolo, riducendo le chance di riprivatizzarla l’anno prossimo (come da impegni con l’Ue), e gli incassi stimati (bene che vada ci saranno minusvalenze per alcuni miliardi). Si era a settembre, con lo spread in risalita, fin oltre i 200 punti base sul Bund. Ogni incidente poteva costare caro al governo. Che ha dovuto abbozzare, e di fatto rinunciare alla nuova tassa».
Sia come sia, resta il fatto che il finale della «farsa» della tassa sugli extraprofitti è quello che descrive Hamaui: «La legge non solo non porterà alcun gettito allo Stato, ma non produrrà alcun rafforzamento della struttura patrimoniale delle banche che non sia stato deciso dal management prima e indipendentemente dalla legge. Rimane il danno reputazionale e le infinite discussioni. Chissà come i banchieri spagnoli, cechi, ungheresi, irlandesi, olandesi e lituani, tutti Paesi in cui è stata introdotta una tassa sugli extraprofitti, invidiano la commedia all’italiana».
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16 nov 2023