L’agenda di Mario Draghi non è veramente tale perché l’interessato non ha, né dà l’impressione di cercare, cariche ufficiali oltre a quella che ha già: leader del gruppo di lavoro che produrrà — su incarico della Commissione di Bruxelles — un rapporto sulla competitività perduta dell’Europa rispetto agli Stati Uniti, al Giappone, alla Corea del Sud e naturalmente anche alla Cina. Colpisce di più però che le idee che ieri Draghi ha presentato all’evento virtuale «The Global Boardroom» del Financial Times non siano, appunto, l’agenda dell’Unione europea: governi, partiti e cittadini del continente l’hanno completamente rimossa in vista di elezioni per il Parlamento di Bruxelles che arrivano in un momento così critico per l’Unione.
Sfide geopolitiche, difficoltà economiche e ritardo tecnologico dell’Europa
Perché Draghi ieri, libero dalle vesti ufficiali che ha ricoperto quasi tutta la vita, non ha fatto sconti. Non ha abbellito il quadro. Né delle sfide geopolitiche, né delle difficoltà economiche e del ritardo tecnologico dell’Europa. Sul primo fronte, le critiche dell’ex premier investono anche gli Stati Uniti e le amministrazioni democratiche con le quali lo stesso Draghi ha sempre mantenuto un dialogo stretto: quelle di Bill Clinton, Barack Obama e dello stesso Joe Biden. «Abbiamo accettato la Russia nel G8 anche se non aveva accettato la sovranità dell’Ucraina, poi in Siria non abbiamo mantenuto la promessa che saremmo intervenuti se Bashar al-Assad avesse usato le armi chimiche, quindi abbiamo avuto la Crimea e il ritiro dall’Afghanistan», ha ricordato l’ex presidente della Banca centrale europea.
No ai compromessi: su pace, democrazia, libertà, sovranità
«La lezione è che non dovremmo mai fare compromessi sui valori fondamentali di pace, democrazia, libertà, sovranità. Se lo facciamo, si mettono in discussione le premesse dell’Unione europea: per questo non c’è alternativa a vincere questa guerra» ha continuato Draghi, con riferimento all’Ucraina. L’ex premier ha riassunto la fase attuale citando un libro di Robert Kagan del 2018, «The Jungle Grows Back», «La giungla ricresce», simbolo dell’erosione dell’ordine mondiale a guida americana degli ultimi decenni. «Be’ la giungla è davvero ricresciuta — ha notato Draghi —. Ma se c’è una cosa che non possiamo e non voglio fare è restare senza reagire: ciò che avevamo dato per scontato per molti anni non lo è e dobbiamo combattere per averlo». Qui s’innesta l’analisi dell’ex premier sulla condizione inadeguata dell’Unione europea. «Serve molta più integrazione perché l’Unione europea sia in grado di esprimere un punto di vista politico e militare: dobbiamo investire di più e soprattutto razionalizzare le spese della difesa».
L’Europa: seconda solo agli Stati Uniti per investimenti militari
Draghi ha ricordato che l’Europa, in aggregato, è seconda solo agli Stati Uniti per investimenti militari. «Ma lo si vede? Davvero no — ha proseguito —. Dobbiamo diventare un’unione, invece che tanti piccoli Paesi che si fanno concorrenza l’uno con l’altro nell’industria della difesa». Ma la disamina dell’ex premier sullo stato dell’Europa è anche più radicale. «Il modello su cui si basava sembra finito: la difesa fornita dagli Stati Uniti, l’export in gran parte verso la Cina, l’energia a buon mercato dalla Russia». Questa in particolare suona come una lettura della Germania, cuore industriale del continente da cui dipende anche il manifatturiero italiano. Draghi ha ricordato che ormai l’Europa ha costi dell’energia più alti che negli Stati Uniti e «molto più alti» che in Cina. «Così non andiamo da nessuna parte», ha detto. Parte della risposta per lui è in maggiori sforzi comuni in reti, import e produzione di energia «rinnovabile e di altro tipo».
Ma l’ex premier vede un’altra «questione drammatica»: la demografia europea in declino — qui sorvola sull’Italia — impone forti aumenti di produttività per sostenere l’economia. «Dobbiamo investire molto di più in tecnologia», dice. Nel breve, Draghi si dice «quasi sicuro che avremo una recessione verso la fine dell’anno» (anche se il commissario Ue Paolo Gentiloni nota che finora la si è evitata). Ma l’uomo che nel 2012 salvò l’euro con il suo «whatever it takes» ora ha una preoccupazione più grave: «O l’Europa si mette insieme e diventa un’unione più profonda capace di esprimere una politica estera, di difesa e sulle migrazioni, o temo che non sopravviverà in altra forma che come mercato unico».