Oggi il governo, salvo sorprese, dovrebbe varare la proposta di legge di bilancio per il 2024. Il piatto forte del menù è un taglio alle tasse, in forme diverse, fino a 14 o 15 miliardi di euro. Di questi, dieci o undici miliardi dovrebbero riguardare i contributi pensionistici dei lavoratori con redditi fino a 35 mila euro (che saranno integrati dallo Stato). Altri quattro miliardi dovrebbero essere legati all’accorpamento e relativa riduzione delle aliquote dell’Imposta sui redditi delle persone fisiche (Irpef), sulla carta, per i redditi medio-bassi. E’ quella che Giorgia Meloni (la premier sotto nella foto con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti) il primo maggio scorso chiamò “il più importante taglio delle tasse sul lavoro in Italia degli ultimi decenni”. E ora non ho intenzione di fare un fact-checking troppo certosino sulla correttezza di questa affermazione: accettiamo almeno per oggi che, se l’Intelligenza Artificiale generativa è autorizzata qualche volta ad andare fuori dal seminato, anche i politici italiani devono avere pari diritti. Il punto è capire cosa sta accadendo.
Le differenze
Sta accadendo, in primo luogo, che questo è un taglio delle tasse sostanziale. Ma è anche un taglio delle tasse che non ha carattere strutturale. In altri termini le tasse sul lavoro vengono tagliate sì, ma solo per un anno. Oggi non ci sono coperture finanziarie di nessun tipo – né minori spese, né diverse maggiori entrate, né spazio nell’aumento di deficit e debito pubblico – per proseguire la riduzione prevista del prelievo anche dopo il 31 dicembre del 2024. Viene dunque legiferato oggi uno sgravio fiscale “provvisorio”, di un anno. Dopo il quale, a credere ai numeri del programma finanziario del governo, tutto in teoria tornerà come prima: chi avrà 35 mila euro di reddito dovrebbe vedere una riduzione negli importi netti in busta paga di 98 euro al mese solo per effetto della decadenza del taglio ai contributi, più un altro taglio di circa trenta euro al mese per effetto del ritorno delle aliquote Irpef alla loro forma di oggi. Questo dal primo gennaio 2025, dopo un anno di indulgenza fiscale. E’ credibile? No. Tra un anno il governo sarà di nuovo sottoposto a una pressione politica fortissima per trovare nuove risorse e riconfermare gli sgravi. Ma questo – il taglio per un solo anno – è quanto si trova nei numeri del programma del governo da oggi al 2026.
I precedenti
Va detto che in questo l’esecutivo di Giorgia Meloni non è solo. Già parte dei tagli al cuneo fiscale del precedente governo di Mario Draghi erano stati resi un po’ più ampi in un decreto del maggio 2022 valido solo fino alla fine dell’anno, con l’idea di renderli permanenti con la legge di bilancio dell’autunno (che poi toccò al governo attuale). E anche il secondo governo di Giuseppe Conte, quello fra 5 Stelle e Pd, aveva varato misure simili inizialmente finanziate per un solo anno. Quel che distingue il taglio delle tasse di Meloni è che non si era mai avuto un taglio delle tasse così vasto – 14 miliardi sono lo 0,7% del prodotto interno lordo – senza nessuna visibilità dodici mesi più tardi. Tutto ciò mi ricorda una massima di Sant’Agostino, ben nota alla politica italiana: “O mio Dio, rendimi casto. Ma non subito”. Tradotto in politichese, noi in Italia le chiamiamo “clausole di salvaguardia”.
Qualcuno dei lettori le ricorderà: per dimostrare a se stessi, agli osservatori di mercato e a quelli dell’Unione europea che avrebbero mantenuto i conti in ordine in ogni caso, nello scorso decennio i governi italiani iniziarono a legiferare enormi aumenti automatici delle imposte sui consumi (Iva e accise) a partire dopo due o tre anni da quel momento, qualora non si fossero reperite risorse in qualche altro modo. È come essere sempre più sovrappeso e decidere che si affronterà una dieta drastica, ma sempre a partire dal mese prossimo. E poi quello dopo. E poi quello dopo ancora. Sempre la stessa dieta, anzi sempre più drastica man mano che il peso aumenta. Ma sempre spostata a una scadenza successiva. Il primo governo a innescare per legge “clausole di salvaguardia” fu l’ultimo di Silvio Berlusconi, nel 2011. Esse furono del tutto coperte da altre entrate o tagli di spesa solo nel 2012 e in gran parte nel 2013 e 2014 (governi di Mario Monti e Enrico Letta).
Tagli e deficit
Dopo di allora le clausole non scattarono mai, ma furono quasi sempre risolte disinnescandole e sostituendole – in gran parte – con aumenti del deficit. Si arrivò a un tale punto di perdita di credibilità di quelle clausole “agostiniane” che dal 2015 la Commissione europea iniziò a non prenderle neanche più in considerazione nelle sue previsioni del deficit dell’Italia. Se il governo di turno legiferava che, in caso di necessità, avrebbe fatto scattare aumenti dell’Iva del 1% del Pil due anni più tardi, allora a Bruxelles si prevedeva semplicemente che il deficit sarebbe stato dell’1% più alto. La pantomima andò avanti fino alla pandemia, nella quale l’Italia entrò con oceaniche “clausole di salvaguardia” per 28,8 miliardi di euro. Approfittammo della sospensione delle regole europee per trasformarle tutte subito in deficit e liberarcene. Credevamo che sarebbe stato una volta per tutte. Non sapevamo quello che ci aspettava. Ora stiamo entrando nell’era dei colossali tagli delle tasse per un solo anno (incidentalmente, un anno elettorale come il 2024).
Per il 2024, il governo mira a un deficit del 4,3% del Pil con 14 miliardi di sgravi. Per il 2025, sulla carta senza i 14 miliardi di sgravi, il governo prevede un deficit del 3,6% del Pil. Ma poiché questa è una sorta di “clausola di salvaguardia” alla rovescia – uno sgravio fiscale che in teoria si disinnesca da solo, invece che un aumento fiscale che in teoria si innesca da solo – allora uno potrebbe fare lo stesso esercizio che faceva la Commissione europea: ignorare la promessa di futura castità, ritenendola poco plausibile. Che succederebbe? In quel caso nel 2025 il deficit non scende e il debito pubblico sale. L’Italia sarebbe dunque fuori dalle regole europee e di conseguenza fuori anche dalla possibilità di beneficiare del “Transmission Protection Instrument”, cioè lo scudo della Banca centrale europea riservato a chi gestisce in modo credibile la sua finanza pubblica. Si potrebbe dunque essere perdonati, se si sospettasse che legiferare il taglio delle tasse per un solo anno serve a mascherare un po’ il fatto che i conti non tornano.
La visione sul futuro
Non fraintendetemi: non sono un fanatico dei bilanci in ordine come una clinica svizzera. Scrivo da anni che poche superstizioni hanno danneggiato l’Europa (e alla Germania) come il culto dell’allora ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble per lo “Schwarze Null” – saldo di bilancio leggermente in surplus – nello scorso decennio. Ma bisogna capire le implicazioni di una cosa sulla carta buona – il taglio delle tasse per i ceti medio-bassi – fatta senza la credibilità di averne le risorse e dunque navigando a vista. Una ricaduta è che almeno parte di queste risorse potrebbe andare sprecata, se l’obiettivo è rilanciare la creazione di posti di lavoro e i consumi delle famiglie. Alcune madri o padri approfitteranno dei (fino a) 98 euro in più in busta paga in più per comprare finalmente le scarpe al figlio che servivano da tempo. Ma senza la certezza che quell’aumento di reddito sia permanente, molti altri semplicemente metteranno i soldi da parte. Non verranno usati. La spesa di uno non diverrà, keynesianamente, il reddito di un altro. E così molte imprese eviteranno di assumere ora che il lavoro costa meno, perché temeranno che dal primo gennaio 2025 tornerà a costare di più. La mancanza di visibilità sul futuro, notoriamente, paralizza le scelte delle persone. E in questo caso rischia di far sprecare dei fondi in deficit. Per inciso, tagliare le aliquote Irpef di quattro miliardi sui redditi medio-bassi è in teoria sacrosanto: ma gran parte di quelle risorse saranno assorbite dagli scaglioni ora più bassi che si applicano anche ai redditi superiori; quindi il beneficio in busta-paga per i primi rischia di essere impercettibile.
Le scelte
Ma c’è un punto più di fondo, che riguarda l’incapacità della politica italiana – questo governo è solo l’ultimo esempio, non l’unico – di compiere delle scelte. Se la priorità è ridare potere d’acquisto ai ceti medio-bassi e rendere meno alto il costo fiscale del lavoro (condivisibile), bisognerà intraprendere delle azioni per rendere concreto questo obiettivo. Normalizzare le aliquote Iva dei ristoranti – fra le più basse in Europa – ora che il turismo è in pieno boom? Lavorare con più fermezza sulla famosa giungla di deduzioni e detrazioni? Avviare tagli di spesa legati alle società partecipate pubbliche locali? Voler distribuire dividendi senza prima generarli porta semplicemente al navigare alla cieca: per quest’anno è così, poi si vedrà. E non conta tanto che sia il contrario esatto di quanto chiedono le nuove regole di bilancio europee, tutte centrate su una programmazione coerente per quattro o anche per sette anni. Conta che la sensazione di improvvisazione crea nevrosi fra i cittadini, incertezza, scetticismo e attendismo. Tutte risorse di cui disponevamo già in abbondanza.
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16 ott 2023