Un misto di coraggio, tempismo e fortuna, per sua stessa ammissione: così Diego Della Valle parla della decisione di lasciare la Borsa di Milano, dove il Gruppo Tod’s aveva debuttato nel 2000, aprendo la strada – a proposito di coraggio – a molte altre aziende della moda. Difficile fare previsioni per il settore dell’alta gamma per il 2025, viste le molte – troppe per chiunque, forse – incognite dello scenario economico e geopolitica globale. «Meglio concentrarsi sui propri punti di forza e la storia che si è riusciti a costruire: è l’unico modo per immaginare il futuro a breve, medio e lungo termine», dice Della Valle, presidente del gruppo che controlla, oltre al marchio Tod’s, Fay, Hogan e Roger Vivier.
Lei è stato il primo a parlare di “intelligenza artigianale” e in molti l’hanno seguita. O meglio: copiata… Cosa significa per lei questa idea?
«Già… forse avrei dovuto chiedere il copyright (ride). In realtà sono contento che il messaggio sia stato colto e capito e… copiato (ride). Sono contento perché l’intelligenza artigianale è tutto per il futuro di un marchio e di un gruppo come Tod’s e per tante altre eccellenze italiane del nostro settore: in passato si parlava di mani sapienti e in fondo non c’è tanta differenza concettuale, ma visto che oggi non si fa che parlare di intelligenza artificiale, mi sembra interessante creare il giusto contrasto».
La rivoluzione digitale la disturba?
«Al contrario, ne sono affascinato. Anche se per motivi anagrafici faccio fatica a usare gli strumenti che sono parte della nostra quotidianità di persone e di aziende, a partire dallo smartphone, che io chiamo ancora telefonino (ride). Capisco quanto la componente digitale sia un fattore strategico per le aziende di ogni settore. Nel nostro è diventata fondamentale nella comunicazione e marketing, nella gestione dei processi e naturalmente per analizzare con la massima accuratezza i dati che arrivano dai negozi o dagli acquisti online. Ma la nostra forza è altrove, nella sapienza artigianale che continuiamo a coltivare e che è in perenne osmosi con la creatività degli uffici stile. Un circolo virtuoso che abbiamo innescato tanti anni fa e per questo nel 2025 abbiamo deciso di raccontarlo prendendo spunto dalla storia del Gommino, forse il nostro longest seller».
Le foto delle prime e delle ultime pagine del libro Italian hands, che avete appena pubblicato, sono proprio del Gommino, ma sono anche le uniche foto di prodotto in quasi 300 pagine…
«Ci abbiamo preso gusto, a raccontare con immagini e parole i temi che ci stanno più a cuore. Non voglio esagerare però: un libro all’anno può bastare, ma deve partire da un’idea, una scintilla, che in qualche modo illumini, ancora una volta, l’intelligenza artigianale. Nel volume Italian hands, curato da Annamaria Sbisà, abbiamo scelto italiani magari non conosciuti al grande pubblico, ma dei quali io e le persone che lavorano nel gruppo hanno conosciuto e ammirato lo stile di vita, profondamente italiano nel senso migliore del termine. Poi abbiamo chiesto loro di indicarci un artigiano del cuore o una passione artigianale. Abbiamo fatto scoperte straordinarie, dal “maestro della pescheria” di Santa Margherita amato dall’architetto Marco Bay al laboratorio di ceramica di Milano Paravicini, scelto da Polimnia Attolico Trivulzio. Non volevamo autocelebrarci, ma raccontare il quadro straordinario all’interno del quale ci muoviamo, come marchio e gruppo italiano, fatto, ancora una volta, di mani sapienti, intelligenza artigianale e creatività».
Tornando al Gommino, qual è il segreto di una scarpa sopravvissuta a mode e tendenze, che si fagocitano a vicenda?
«È riconoscibile, semplice nella sua sintesi di funzionalità ed estetica. E abbiamo scoperto che può diventare una sorta di tela bianca sulla quale esercitarsi. Non cambieranno mai i passaggi per costruirlo, i pellami e piccoli dettagli che scegliamo guardando alla qualità e bellezza dei materiali. Ma possiamo – e lo abbiamo già fatto – sbizzarrirci coi colori, le sfumature, i diversi tipi di pelle».