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Kassel rimuove l’opera antisemita: polemiche sull’arte di Documenta

Giugno 22, 2022
nel Cultura
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di PAOLO VALENTINO, nostro corrispondente

Nel grande quadro del collettivo palestinese The Question of Funding, un maiale con la stella di David e un ebreo ortodosso con le zanne e il logo delle SS. Le scuse (poco convincenti) della direttrice

Ogni cinque anni, dal 1955, una piccola città dell’Assia diventa cuore e vetrina dell’arte contemporanea mondiale. Non ha sicuramente il glamour mondano di Venezia e della sua Biennale. Ma Kassel ha ormai identico prestigio e uno status di culto per tutti gli appassionati delle avanguardie. Fondata dopo la fine della guerra per rivendicare il ruolo della Germania come «Kulturnation», chiamata semplicemente «Documenta», la manifestazione renana non ambisce solo a rivelare le nuove direzioni dell’arte, ma anche a catturare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo in senso più ampio. Dura cento giorni, ospita le opere di oltre 1.500 artisti e attira almeno un milione di visitatori.

Ma sulla quindicesima edizione, aperta nei giorni scorsi alla presenza del presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, grava sin dall’inizio un sospetto, che suscita sdegno e polemiche in Germania, dove nulla è più contundente dell’accusa di antisemitismo.


Al centro della diatriba, nelle ultime ore diventata esplosiva, è la scelta della direttrice, Sabine Schormann, di affidare per la prima volta le redini della kermesse al collettivo di artisti indonesiani Ruangrupa. La loro idea: mostrare una visione dell’arte meno centrata su Europa e Stati Uniti, attirare l’attenzione sui danni prodotti dal capitalismo, la colonizzazione, le strutture patriarcali, in una costruzione «democratica» dell’allestimento. Usando il concetto del lumbung, il fienile indonesiano dove viene immagazzinato il surplus della raccolta di riso prima che la comunità decida come distribuirlo, Ruangrupa ha invitato a Kassel 14 collettivi artistici da ogni parte del mondo, i quali a loro volta hanno ciascuno invitato 50 artisti o gruppi. Tutti i partecipanti sono stati divisi in 10 piccole assemblee, dove in piena autonomia venivano decisi i contributi di ognuno: installazioni, sculture, enormi striscioni dipinti, una rampa per skateboard, un teatro delle ombre con le marionette, di tutto di più.


Ma a far da detonatore è stata la presenza nella lista degli invitati del collettivo palestinese The Question of Funding, il cui lavoro esplora i modi in cui gli artisti palestinesi finanziano il loro lavoro ed è molto critico verso l’occupazione israeliana nei territori. Di più, non nasconde legami e simpatia con il movimento Boycott, Disinvest, Sanctions (Bds) che predica il boicottaggio di Israele a causa della sua politica di occupazione e che nel 2019 è stato dichiarato «antisemita» dal Bundestag, il Parlamento tedesco: «Le sue campagne — recitava la risoluzione — evocano il più terribile capitolo della storia tedesca». Bds non ha diritto a finanziamenti pubblici tedeschi, ma più della metà del budget di Documenta, circa 42 milioni di euro, viene dallo Stato federale.

La polemica è iniziata in gennaio. Prima la denuncia su un blog di un gruppo autodefinitosi Alleanza contro l’Antisemitismo a Kassel. Poi le critiche di numerosi giornali a Ruangrupa, accusati anche, in quanto musulmani, di «non avere sensibilità per le preoccupazioni degli ebrei». È seguita la risposta sdegnata degli indonesiani, che hanno puntato l’indice contro «i tentativi in malafede di delegittimare gli artisti e censurarli preventivamente sulla base della loro origine etnica». «Uno spettacolo imbarazzante — ha commentato “Der Spiegel” —. Il settore culturale tedesco ha difficoltà a conciliare libertà artistica, rispetto delle minoranze e peso della storia».

Ma a far fare un salto di gravità alla controversia è stata l’installazione venerdì scorso, due giorni dopo che Steinmeier aveva messo in guardia da critiche superficiali contro Israele, di uno dei pezzi più importanti della mostra, un gigantesco striscione di tela di 9 metri per 12 dal titolo People’s Justice, opera del collettivo indonesiano Taring Padi. Collocato a poca distanza dall’ingresso, quindi visibile per forza di cose, è una composizione apocalittica, che si dipana sotto lo sguardo di un teschio, popolata da dimostranti, diavoli, angeli e poliziotti. Ma due figure saltano subito agli occhi: un maiale con in testa un elmo militare con la scritta Mossad e al collo un fazzoletto rosso con la stella di David, un ebreo ortodosso con tanto di zanne e il logo delle SS sul cappello.

«È un linguaggio espressivo antisemita», ha tuonato la ministra della Cultura, la verde Claudia Roth, che pure finora aveva difeso la libertà di espressione negando che ci fossero tracce di antisemitismo in Documenta. «La difesa contro l’antisemitismo e contro ogni forma di razzismo sono le basi della nostra convivenza e qui anche la libertà artistica trova i suoi limiti: i curatori e gli artisti devono trarre le conseguenze necessarie». «È un chiaro incitamento antisemita, qui è stata superata una linea, non ha alcuna importanza da dove provengano gli artisti», ha detto il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster. Mentre l’ambasciatore israeliano a Berlino ha chiesto l’immediata rimozione dell’opera.

Dopo averne annunciato in un primo momento la copertura, ieri la direttrice Schormann e il gruppo Taring Padi hanno deciso che People’s Justice verrà rimosso, scusandosi per le «ferite» involontariamente provocate. Ma non hanno convinto nessuno, visto che insistono nel dire che il sospetto di antisemitismo dell’opera è emerso «solo nel contesto specifico» della storia tedesca. Come dire che un rabbino con la svastica altrove non significa nulla. Quando il rattoppo è peggio del buco.

21 giugno 2022 (modifica il 21 giugno 2022 | 21:27)

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