Lo scrittore scomparso a Damasco a 59 anni. Inviso al regime, non aveva mai voluto lasciare il Paese. Nel 2013 aveva vinto il Premio Naguib Mahfouz dell’Universit americana del Cairo
Una sera di dieci anni fa Khaled Khalifa aveva avuto un infarto, come quello che lo ha ucciso sabato 30 settembre a 59 anni. Dieci anni fa, ricoverato in terapia intensiva a Damasco, aveva immaginato cosa sarebbe successo se fosse morto in quel momento, nella Siria sconvolta dalla guerra. Nell’arco di 5 minuti pass davanti ai suoi occhi il romanzo che ne sarebbe nato, Morire un mestiere difficile, edito in Italia da Bompiani. I miei cari avrebbero trasportato il mio corpo fino alla tomba di famiglia, nel nostro villaggio a nord di Aleppo, ci disse. Erano giorni terribili, non si poteva raggiungere il centro della citt senza transitare per diversi posti di blocco. E aggiunse: Sentivo che questo romanzo mi avrebbe ucciso se non lo avessi narrato. L’ho scritto per non morire.
Nessuno piange il protagonista di quel libro, morto per cause naturali in guerra. Ma oggi il mondo piange la perdita di un grande scrittore internazionale, che aveva deciso di restare in Siria e rifiutato di rinunciare al piacere, alla gioia, all’immaginazione e alla speranza, durante questi anni di repressione brutale del regime contro la popolazione.
Nel 2012 a un corteo per l’amico musicista Rabi Ghazzy, trovato morto con un colpo alla testa in un’auto, gli ruppero la mano sinistra. Scrisse che il suo popolo era stato sottoposto a un genocidio dal regime. Nei momenti pi bui, durante massacri, arresti, l’uso di armi chimiche sulla popolazione, le parole non venivano ma poi ritornavano. Scrisse per la tv e il cinema, oltre che romanzi come i capolavori L’elogio dell’Odio e Non ci sono pi coltelli nelle cucine di questa citt (entrambi Bompiani). Di sera, anche durante la repressione, si riuniva con gli amici al bar o a casa di qualcuno (dopo un po’ non a casa sua, perch era sorvegliata), si beveva arak, bianco come il latte della mamma. Quando il suo quartiere di Barzeh era sotto assedio del regime, stava in casa, per giorni, a volte senza elettricit n internet. Amava cucinare quanto scrivere. Preparava sottaceti, tornando con la mente all’infanzia, sotto lo sguardo del ritratto di sua madre, identica a lui. Il regime aveva paura di arrestarlo, temeva il clamore che ci avrebbe causato. La polizia segreta gli vietava periodicamente di lasciare il Paese. un problema siriano, rispondeva se gli chiedevi se potevi aiutare. Alla fine riprendeva i suoi viaggi: Beirut, Cairo, Londra, Italia, Stati Uniti, ma tornava sempre a casa. Una volta gli avevano perso il bagaglio all’aeroporto di Roma. La cosa importante il mio portatile, il resto non conta, mi scrisse chiedendoci di recuperarlo. Dentro c’era l’unica copia di un suo romanzo inedito.
Negli ultimi anni si era trasferito a Latakia, sulla costa: scriveva e dipingeva. Rifiutava l’idea che l’odio vincer: era convinto che, se ci sar giustizia, i siriani metteranno da parte la vendetta e ricostruiranno, per i loro figli.
2 ottobre 2023 (modifica il 2 ottobre 2023 | 14:53)